Una chiacchierata con Aroti Bertelli

Cari lettori, oggi desideriamo trasportarvi dall’altra parte.

 

Siamo una generazione di famiglie adottive fortunate: capitiamo in un momento “storico” che ci offre la grande opportunità di dialogare con i protagonisti dell’adozionei figli cresciuti. I bambini adottati in Italia dalla fine degli anni 80 sono adulti, guardano al proprio percorso con sguardo maturo. Sanno individuare quali esperienze siano state positive, formative; quali al contrario dolorose o frutto di pregiudizio. Alcuni di loro desiderano condividere la propria esperienza, lo fanno attraverso i social, i video su YouTube, i libri.

Ci siamo accorti che c’è tanto su cui riflettere, e tanto da imparare per coloro che si pongono in un atteggiamento di ascolto.

 

Non sempre le loro parole sono “comode”, anzi, talvolta ci obbligano a ripensare al nostro ruolo ed alle modalità con cui ci relazioniamo con i nostri figli.

 

Ci ricordano che, seppure la narrazione sia stata per oltre un ventennio per lo più genitore-centrica, un ruolo paritario spetta a loro: i protagonisti della storia.

Una storia che può non avere sempre lieto fine (ancora, dal punto di vista del genitore, o a partire da una concezione di relazione genitori-figli idealizzata).

 

Una storia che si rende autonoma dal racconto che elaborano i genitori per i loro piccoli, e diventa LA storia di una vita, comprensiva anche del tempo che precede l’adozione.

 

La crescita ha tappe, momenti di evoluzione, tempi, significati differenti per ciascuno. Le interviste che seguiranno non hanno lo scopo di fissare nero su bianco verità assolute: si tratta di esperienze di vita vissuta di singoli individui.

 

L’invito, quando ci approcciamo all’ascolto o alla lettura, è innanzitutto quello di spogliarsi dei pregiudizi. Di fronte alle loro parole potranno sorgere reazioni confortevoli, potremmo sentirci compiaciuti o, al contrario, potremmo sentirci presi alla sprovvista, arrabbiati, addolorati, non riconosciuti nei nostri sforzi, non gratificati. Come si sentono invece i nostri figli?

 


 

Intervista ad Aroti Bertelli

 

Colori: Cara Aroti, grazie per avere accolto il nostro invito a questa intervista. Siamo felici di inaugurare con te un progetto, ed una rubrica sul nostro sito: le “Parole dei protagonisti”. Nel preparare questa intervista, ci siamo domandati se valesse la pena seguire un ordine cronologico e quindi saltare tra fasi nettamente distinte del tuo percorso di vita. Ci siamo accorti però, leggendo i tuoi scritti e conoscendoci di persona, quanto tu sia la summa di tutte le tue le storie, tutti i colori, profumi, suoni: un intreccio che si snoda al di là delle apparenti, nette cesure. Procederemo per immagini e colori, se sei d’accordo. Intanto, avresti voglia di presentarti brevemente a coloro che non ti conoscono?
Aroti: Mi chiamo Aroti Bertelli, ho 35 anni. Sono italo indiana, adottata all’età di 9 anni. Amo leggere, scrivere; camminare sotto la pioggia, il suo odore, il rumore, che nutre le mie radici indiane.  Amo viaggiare, da sola e con mio marito che è il mio amico e compagno di vita da 6 anni. Desidero diventare genitore, madre lo sono da tanto tempo e non perché abbia già avuti dei figli, ma poiché le mie esperienze e circostanze mi hanno portata ad esplorare questo aspetto di me – che discende dalle donne della mia vita che mi hanno preceduta. Utilizzo il mio tempo per comprendere il mondo dell’adozione, di chi è diverso. Sono attivista nella decontrazione del razzismo, antirazzismo e di tutti gli stereotipi legati anche all’adozione.  Sono relatrice in questi ambiti dove incontro famiglie, adottivi, istituzioni e operatori.

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Aroti Bertelli i-colori-dell-adozioneC: Partiremo dal viaggio di nozze dello scorso febbraio, con Mario, in Malaysia. E’ il viaggio di una donna e viaggiatrice che fa i conti, tra le altre cose, con i propri sogni di bambina.
Scrivi “Bambina lo sono stata e lo sono tutt’ora, di sogni sono piena, ma i miei sogni sono stati diversi, non bianchi. Verde come il colore del campo di tè, di risaie infinite. Sogni freschi, come le gocce di pioggia che ti sorprendono sempre, più volte al giorno, di quelli equatoriali. Profumati come i fiori che ho raccolto, così semplici da trovare. Sogni caldi, come la mia pelle che brilla e torna al suo colore antico, vivo. Sogni umili, di corone di felci, più lucenti di certi specchi egocentrici”.
A: Durante il mio viaggio di nozze, un viaggio incredibile e unico, ho avuto modo di essere vicina alle mie origini asiatiche. La parte materna ha origini malesi e tailandesi.
Così, immersa nel verde del tè malese che comunque proviene dalla regione in cui sono nata, Assam, sono riaffiorati in me, i miei sogni. Sogni diversi rispetto a quelli dei bambini nati e cresciuti in Italia. Sogni diversi rispetto ai miei pari. Diversi date le esperienze anche precoci dovute alle circostanze. Sogni semplici, umili, perché ero felice con poco e questo aguzzava il mio intelletto, stimolava la mia fantasia, creatività e immaginazione. Sogni non indotti, ma liberi.
C: Hai condiviso sui social una tua foto di circa 25 anni fa, scattata in un orfanotrofio in India…tu stai danzando il Bihu, tipica danza dell’Assam (tua regione di origine) e tanti occhi di bambini ti osservano ammirati. Arancione è il colore che assume la tua grazia ed energia. E’ lo stupore di quei bambini. E’ il curry che se mangi in eccesso rischia di farti star male…
Aroti bambina danza i-colori-dell-adozioneA: Da piccola, quando vivevo in India nel mio villaggio, insieme alla mia famiglia, partecipavo a delle competizioni di danza. Non lo facevo perché mi piacesse ballare, avevo altre attitudini, anzi mi vergognavo abbastanza davanti a tutta quella gente. Lo facevo per vincere i soldi in palio per aiutare la mia famiglia e pagare la mia istruzione. Eravamo 3 figli e i soldi facevano comodo.
Quando sono stata costretta a lasciare il mio villaggio, non ho più ballato.  In occasione del compleanno di una delle sisters all’istituto di Calcutta, ho danzato davanti a tanti bambini così ipnotizzati. Con il mio lengha choli arancione, mi sentivo trasportata tanto da non accorgermi del fotografo.
Chissà dove è rimasto quell’abito… Ho danzato al mio matrimonio, volevo fare una sorpresa a Mario, mio marito, sulle note di una canzone indiana.
ArotiKamal i-colori-dell-adozioneC: Arancione è il colore del kurta che ricordi di  avere indossato a Guwahati, all’Istituto delle Suore di Madre Teresa, il giorno in cui per la prima volta venni definita, insieme a tuo fratello Kamal, “too dark” da una coppia indiana candidata all’adozione nazionale che venne per incontrarvi, e poi se ne andò.
A: Prima di essere adottati in Adozione Internazionale, una famiglia indiana era venuta a farci visita in Istituto. Mio fratello ed io, dovevamo essere i loro papabili figli. In realtà noi due eravamo troppo scuri, “too dark” per loro. Sicuramente loro appartenuti a qualche casta privilegiata e chiara.
In India è forte il Colorismo, la discriminazione per via della tonalità della pelle e naturalmente, anche se le Caste sono state abolite, nel costrutto sociale è ancora molto forte il divario che essa crea.
C: La foto scattata all’arrivo in Italia ha tanti dettagli che raccontano un’adozione “vecchio-stile”. Accompagnati “a destinazione” da una delegazione di suore, tu e Kamal fate improvvisamente i conti con un bianco predominante e accecante: la pelle di chi vi prende in braccio, le pareti, pure il clima ci si mette con la neve di quell’anno. Quell’aereo bianco atterrato a Fiumicino segna una distanza importante tra il prima ed il dopo.
Aroti-arrivo-in-italia i-colori-dell-adozioneA: 23 Luglio 1994, è il giorno in cui, insieme ad un gruppetto di suore, siamo atterrati a Fiumicino. C’erano ad attenderci i nostri genitori adottivi con i nonni. In realtà per noi erano dei perfetti estranei, diversi da noi. Visti una volta in una fotografia quando eravamo nell’istituto a Calcutta. Quel giorno è stato uno shock, traumatico tanto che piansi e volevo assolutamente tornare indietro. Quel giorno ha cambiato per sempre il mio presente e quello di mio fratello. Un per sempre non scelto e lo dimostrano le nostre espressioni e il nostro linguaggio del corpo in foto.
C: Ci accorgiamo, rileggendo, di avere messo insieme involontariamente, i colori della bandiera indiana. Il bianco ci servirà allora come colore di transizione verso il rosso, che poi inevitabilmente comporrà la bandiera italiana. Rossa è la rabbia di fronte ad un’adozione non giustificata dallo stato di abbandono in cui versavate. Rossa può essere l’angoscia del non essere riconosciuti, o dell’essere allontanati. 
A: Noi non eravamo orfani in India. Come spesso succede, i bambini camminano anche soli per le strade. Perciò facile poi ritrovarsi in istituti, quando l’unica cosa che desideri è tornare a casa tua, dai tuoi parenti. L’assurdo è stato quando quelle due persone che mi hanno adottata, decisero di restituirmi indietro, tenendo però mio fratello. Nei loro discorsi ascoltati di nascosto, ero sempre la figlia che non avevano voluto.
Certamente ero più grande, con un vissuto ingombrante che loro non erano in grado di affrontare. Neanche mai hanno chiesto un aiuto serio. Preferivano mio fratello pensando che con un bambino più piccolo, le cose sarebbero state più facili.
In adozione nulla è semplice, nulla è facile. Niente è scontato. Quel periodo della mia vita è stato pervaso di rabbia, delusione. Dover prendere certe decisioni, quando semplicemente volevo vivere in maniera serena, senza dover lottare per la mia sopravvivenza in questa parte di mondo che doveva tutelarmi, offrimi possibilità ed alleggerirmi la mia valigia interiore. Invece mi sono ritrovata a dormire dove capitava, anche nei dormitori per donne in difficoltà.
Se da una parte, il rosso è il colore del mio periodo di rabbia, rosso è stato anche colore per la passione per la vita. Mi sono aggrappata alla vita, proprio come quando sono stata nella pancia di mia madre. Nei momenti di rischio, in cui si vive con la paura di sparire da un momento all’altro, mi sono stretta più forte che potevo senza nessuna certezza. Solo l’amore per la vita. Io desideravo vivere e mi sono affidata a me stessa.
C: Rosso è anche l’amore fraterno, capace di fronteggiare una realtà inaspettata. Di rosso si tinge ancora il dolore, per la perdita e la solitudine. Ma bianco è il sari che vesti, come tradizione vuole, per la commemorazione ai defunti sulle rive di Varanasi. Là dove si celebra la vita che è stata e si riconosce il dono di averne fatto parte. Si accende una lucina di giallo brillante alle prime luci dell’alba, e la si lascia andare sulla corrente del Gange.
A: Le mie radici sono fatti di colori, un linguaggio silente pieno di significati. Quando sono tornata in India, desideravo commemorare mio fratello attraverso un rito della mia cultura originaria.
In Italia, al suo funerale, avevo chiesto ai presenti di vestire di bianco, ed avevamo un piccolo Tagete arancione, un fiore sacro per l’India.
Bianco è il colore che si indossa quando muore qualcuno. E’ simbolo di purezza, di ritorno alla vita. E’ luce, è un grazie che si dice a chi ci ha preceduti. Un grazie per la vita condivisa per il tempo che ci è stato concesso, per i ricordi che si hanno insieme e per il fatto di essere venuti al mondo come dono. In India ho voluto ricordarlo proprio per tutti questi significati che ha la morte per me.
Ma bianco è la realtà in cui ci siamo ritrovati a crescere. Un bianco dominante, accecante che tutt’oggi esercita il suo potere di superiorità, gode di privilegi e dimostra le sue fragilità quando viene messa in discussione. Una delle figure più potenti è proprio la figura del genitore adottivo.
Per le persone come me, è dura trovare occhi somiglianti, è come camminare senza riflettere nell’altro, perché l’altro è diverso da me in tutto, o forse sono io ad essere diversa.  Un sole giallo e gigante, è l’inizio di una nuova alba, di un’altra vita che nasce.
C: Rosa è il colore di un abbraccio sicuro. La serenità di un compleanno da vivere consapevolmente, soffiando con fiducia le candeline verso il futuro. Hai recentemente affrontato il tema del compleanno in un video su YouTube. Avresti voglia di raccontarci le diverse declinazioni che hai dato a questa ricorrenza nel corso della tua vita? 

Aroti-compleanno i-colori-dell-adozioneA
: Il compleanno. Non conoscevo questa ricorrenza; in India non credo di averlo mai festeggiato. I primi compleanni italiani sono stati strani, non capivo perché fosse così importante celebrare se poi sono quella figlia che non è stata desiderata. Infatti per me, il compleanno è sempre stato un momento malinconico e triste. Non lo ero perché non conoscessi la mia storia, lo ero perché il mio presente era stato interrotto senza poter scegliere, salutare le persone a me care, dirle dove sarei andata. Rassicurarle. In quei momenti riaffioravano domande che avrei voluto fare a mia madre naturale, ora che l’età mi permette di capirne il senso:
Mamma com’ero nella tua pancia? Ti tiravo tanti calci? Parlavi con me? Mi accarezzavi? Abbracciavi la tua pancia? Come hai vissuto mentre mi aspettavi? Hai sofferto tanto? Come è stato attendermi? Com’ero mamma? Dimmi. A chi assomiglio? Da chi ho preso il mio modo di essere? Cosa mangiavi? Cosa mi piaceva tanto che ti chiedevo con le tue ”voglie”? E papà? Era con te? Ti abbracciava? Era felice di avere una bambina primogenita? Direi di sì mamma, perché sono venuta al mondo e mi avete tenuta, amata e istruita. E dei miei fratelli? Dimmi, ve li chiedevo? Mamma quando arriva un fratellino, o una sorellina? Mamma, se lo dici lentamente sembra il rumore di un’onda che ti spinge verso la riva, richiamandoti poi a sé. Mamma.
In adozione spesso le date di nascita non sempre sono veritiere. Nel mio fascicolo ho 3 date di compleanno, ma ho costruito la mia vita sul 2 Aprile 1985, cercando darle un senso sopra le incertezze che sono comuni in adozione.
Con il passare degli anni, ho capito che il compleanno aveva senso per me, per il dono della vita che mi è stato fatto. Il giorno in cui sono nata, che non è il giorno in cui sono stata adottata, al di là delle circostanze, è avvenuto un miracolo e che non era il caso di sprecare questa opportunità. Qui ne parlo e mi piacerebbe che ascoltaste questo confronto fatto con un’amica, anche lei adottata. https://youtu.be/UdhgLY_Mxjw
C: Blu, colore dell’introspezione e della meditazione. Azzurro quando si tramuta in estroversione, il lancio dello sguardo verso gli altri. Entrambe attività che ci sembra possano caratterizzare il tuo percorso. Con la biografia “Aroti, ritorno alle origini. Storia di un’adozione”, e la trasmissione televisiva “Italiani made in India”, un viaggio interiore tanto intenso come il ritorno alle orgini è stato condiviso con il pubblico. Recentemente inoltre tu e Mario avete accettato di collaborare con Masterchef per il vostro matrimonio in stile indiano. Di quale messaggio si fa portatrice la tua storia?
A: Quando le persone si confidano con me, mi dicono che osservo la vita con introspezione, medito sulle cose, non mi fermo alla superficie.
Credo abbiano ragione e credo sia dovuto al mio essere cresciuta per 9 anni importanti e significativi nella mia cultura d’origine. Seppure la mia breve infanzia sia stata particolare, l’ho comunque trascorsa con i miei genitori e fratelli biologici. Credo che quel prima mi abbia formata dentro.
Il mio ritorno alle origini l’ho fatto attraverso un programma televisivo, un programma serio senza forzature e finzione. Dopo il viaggio durato un mese, ho scelto di scrivere il mio libro, il viaggio raccontato dal mio punto di vista. Ero stanca di sentire solamente le voci dei genitori adottivi, degli operatori, che raccontano l’adozione senza viverla in prima persona. Stanca di sentire che in adozione va tutto bene, che siamo tutti felici e contenti. Stanca di leggere, ascoltare le famose testimonianze di figli adottivi scelti ad hoc, per mostrare la bellezza dell’adozione perfetta.
Sapevo che non era così. Lo sapevano altre persone adottate, le cui voci vengono spesso silenziate perché scomode. Silenziare noi per silenziare le altrui coscienze.
L’adozione non è un progetto, è uno dei modi con cui si diventa famiglia. E’ un mondo complesso; definire una adozione positiva o negativa, o parlare di fallimento adottivo, è riduttivo, e inoltre si tende a mercificare i vissuti all’interno di una famiglia. La famiglia è ben altra cosa.
Per la stanchezza che sentivo, ho deciso di alzare la mia voce, come persona adottata, per dare voce a tutte le persone adottate come me, affinché la loro voce fosse amplificata.
L’adozione senza la nostra voce è decentrata. Se vogliamo parlare di etica dell’adozione, dobbiamo tenere conto delle nostre voci e di quelle dei genitori biologici. La mia storia scoperchia tanti vasi di Pandora, mette in discussione il sistema dell’adozione e le modalità con cui un bimbo/una bimba viene dichiarato adottabile. Spesso è stato detto che se una famiglia non funziona, la colpa è certamente dei figli, ma non è così. Volevo fare da apripista, o semplicemente mostrare l’altro lato della medaglia, proprio perché l’adozione possa essere autentica.
Desideravo che la narrazione dell’adozione non fosse edulcorata da voci che non vivono l’adozione, ma che ci fosse ascolto dei veri protagonisti. Come persona adottata, posso contribuire con nuove istanze, con argomenti che non sono mai stati affrontati, proprio per dare una panoramica ai futuri genitori. Collaborare, fungere da referenti, affinché anche figli adottivi abbiano figure adottive di riferimento. I genitori ce le hanno, come mai questa possibilità non esiste per le persone adottate?
Strada facendo, mi sono resa conto che ci sono preferenze di voci di ascolto. Si scelgono quelle che rafforzano una certa idea dell’adozione, possibilmente quella detta “rosa”. Però in generale, la vita non è perfetta, perché dobbiamo dare l’impressione che lo debba essere l’adozione? Dovremmo ascoltare le difficoltà dei figli di crescere in un mondo totalmente bianco, soffermarci sulle difficoltà delle famiglie che iniziano con l’arrivo del figlio/a.
Le famiglie non vanno lasciate sole. Quello che faccio attraverso la mia storia, è quello di decostruire l’adozione dagli stereotipi che hanno “coccolato” le fragilità dei genitori adottivi che non hanno realmente affrontato se stessi e la realtà in cui vivranno i loro figli. Non hanno realmente affrontato anche il loro essere antirazzisti, perché purtroppo ci sono anche famiglie adottive che portano avanti stereotipi derivati dal razzismo. Per esempio: bambini di colore, color cioccolato, scimmietta, ecc…
C: Oggi c’è Luce, che non è un solo colore, e allora, se vuoi, decliniamolo in Arcobaleno. Incontri Mario e insieme a lui trovi occhi, orecchie, naso, parole e pelle che riconoscono ed accolgono tutte le tue sfumature. Parlate di voi come di “blended famiglia”, puoi spiegarci meglio? 
A: Il 2019 è stato un anno speciale per me. Ci siamo sposati, e abbiamo detto Sì due volte.
La prima volta con Masterchef con cui abbiamo realizzato il nostro matrimonio indiano. Mario era entusiasta, sia perché non vedeva l’ora di vivere le mie radici indossando proprio gli abiti tradizionali indiani, toccare con mano i riti, le promesse, sia perché anche lui ci teneva a lasciare un messaggio.
Due matrimoni dai significati diversi, emozioni diverse. Il matrimonio indiano per ricordare alle persone come me, che le radici sono importanti, non potremmo stare in piedi senza di esse e che rinnegare significa essere incompleti. Un invito a trovare una persona che ami quelle radici, che si senta orgoglioso di avere accanto una persona con una storia totalmente diversa e che queste diversità reciproche saranno la benzina che terrà viva la fiamma.
Come donna indiana per origine, pensando alle altre donne, desidero abbiano la stessa libertà di scegliersi il proprio compagno di vita per amore. Mario voleva proprio dire apertamente che lui si sente fiero di avere una famiglia con due radici diverse, di lottare affinché il mondo comprenda quanto c’è da apprezzare nell’essere diversi, quanto questo sia un valore aggiunto e…di quanto in realtà siamo anche simili al di là delle apparenze.
Il matrimonio italiano, quello registrato ufficialmente, ha suggellato il nostro essere una Blended Famiglia. Blended cioè diversa da mista. Nelle famiglie miste, uno dei due ha anche la nazionalità di origine diversa dall’altro, noi siamo entrambi italiani ma con origini diverse. Sono blended le famiglie adottive, le persone adottate. Siamo una famiglia anche senza avere figli al momento, perché credo che quando sarà, un figlio arriverà in una famiglia che si è creata prima di lui/lei. Sarà accolto come membro della famiglia, dell’amore che si è creato prima. Credo sia un buon posto, un buon modo di accogliere, invece di “far cadere” la responsabilità dell’essere famiglia dalla presenza o meno di figli. Come donna che ha fatto il suo ingresso da sola, ci tengo a lasciare un messaggio. Esattamente il messaggio che ho scritto per quel giorno:

“Mio carissimo Futuro,
Eccomi.  
Non esistono coincidenze, so che per qualche motivo ogni passo che ho fatto da quando ho imparato a camminare, era un passo verso di te.  
Era difficile immaginarti dentro un cammino che ha per sempre cambiato la mia vita.   Sono partita da molto lontano, il mio corpo ha protetto i miei sogni, li ha cullati con musica natìa. Nel silenzio del Presente, nelle mancanze, nei vuoti, li ho fatti crescere, al riparo. I sogni mi hanno dato la forza di andare avanti, mi hanno fatto sperare in te, Futuro, e lottare per te.
Ho lottato tanto perché ti desideravo davvero. L’avverarsi di te dipendeva unicamente da me, dalla volontà che ci avrei messo, nonostante l’entropia, dentro e fuori. Ma io ti volevo, lo giuro.  
Nessuno credeva che, io nata femmina, senza nessuno accanto in questa parte di mondo, avrei reso te, reale.  
Non ho mai voluto che qualcuno mi salvasse. Sono nata femmina sì, ma sono diventata una donna forte e determinata. Mi sono dovuta fare da madre, da padre e da figlia. Ho salvato te e ho preso consapevolezza di me. Non è una colpa, una debolezza o uno sbaglio nascere donne e avere dei sogni. Che fatica Futuro, fare questi passi verso di te.  
Ti ho intravisto nell’incrocio di un altro cammino con passi incerti. Perché tu diventassi il Noi, perché ci fosse spazio per te nei nostri cammini, abbiamo proseguito in solitaria senza allontanarci. Non ti abbiamo perso di vista.
In quei 7 chilometri di una sera Meneghina di Febbraio, abbiamo deciso di lasciare due orme nella vita, camminando accanto. Perché l’amore non è rincorrersi e pretendere, ma attendersi per camminare insieme.”
C: Cosa puoi suggerire a chi di noi si trova in un tempo sospeso – viola, cioè nell’attesa o nell’incertezza? Hai all’attivo numerose collaborazioni con enti e associazioni che operano intorno al tema dell’Adozione, hai conosciuto tanti aspiranti genitori adottivi e famiglie già formate. Ritieni che sia progressivamente cresciuta la consapevolezza con cui coppie/famiglie si pongono di fronte all’incontro con il figlio adottivo? Hai consigli per coloro che si avvicinano ad un’adozione interrazziale?
A: L’adozione ha fatto molti passi in avanti rispetto a 30 anni fa. I figli che allora erano piccoli, ora sono degli adulti che hanno preso la parola e collaborano con enti, associazioni. C’è più trasparenza durante le fasi di colloquio, ci sono molti controlli, e forse anche troppi rispetto al niente di prima.
Se prima i genitori non avevano strumenti, oggi si tende quasi ad essere maniacali verso i vuoti dei figli. Come pensando che più ci si prepara, più si sarà in grado di riempire quel vuoto. In realtà non è questa la funzione dei corsi, degli incontri.
Essi servono per capire che esistono i vuoti, che sono la presenza di qualcosa che non c’è più, che non si ricorda. E’ deleterio avere la pretesa di poterli riempire, perché potrebbero esplodere. C’è questa smania anche di essere un genitore adottivo modello, perché ci si sente in competizione con il genitore biologico. Spesso si denigra la genitorialità biologica, si scredita la gravidanza. Non dovrebbe essere così: sono due modi esattamente diversi di essere famiglia.
Non c’è un meglio, un peggio. C’è questa paura di non riuscire, data anche dalla pressione dei controlli. Trovare un equilibrio come famiglia, fortificare la propria identità singola e come famiglia.
Per le famiglie che scelgono l’adozione interraziale, mi sento dire di leggere molto sul paese d’origine, magari testi scritti da persone di quel specifico posto. Frequentare le comunità di origine dei futuri figli, capirne le tradizioni, le usanze, conoscere la storia. Trovare persone influenti di quel determinato paese, mangiare il cibo tipico, cucinarlo.
Ascoltare adulti adottati, chiedere che essi siano inseriti come referenti nei luoghi in cui socializzeranno i figli. Essendo i genitori molto influenti, questo loro contributo potrebbe davvero migliorare il sistema adottivo. Chiedere che nei corsi di formazione ci siano adulti adottati che parlino dell’adozione, delle discriminazioni, del razzismo e di cosa significa vivere l’adozione da adulti.
Perché l’adozione non finisce mai.
Chiedere che negli interventi ci siano più voci di adulti adottati e non solo per fare Tokenism. Non c’è una verità assoluta, ma un gradiente di verità nell’altro. Questo vuol dire non sentirsi superiori a nessuno. L’attesa di un figlio, di essere ancora più famiglia, è un tempo prezioso e fruttuoso. Una parte della sua profonda bellezza, è data dalla lentezza con cui tutto questo cresce.
C: Ci salutiamo citando un estratto da un saggio di Chimamanda Negozi Adichie.
Ciò che mi ha colpito di più è stato questo: che le facessi già pena ancora prima di vedermi. Il suo atteggiamento iniziale verso di me in quanto africana, era una specie di pietà paternalistica e benintenzionata. […] Raccontare un’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano la storia in un’unica storia.
Vedi stereotipi da decostruire intorno al/alla bambino/a che vive l’adozione?
A: Gli stereotipi sono delle etichette sociali, un modo di catalogare le persone per poterle controllare.  La colpa è della cattiva narrazione e rappresentazione. Naturalmente anche l’adozione non è da meno. Nello specifico, attorno alla figura della persona adottata, ci sono un’infinità di stereotipi che sarebbe ora di estirpare.
Un bambino adottato viene visto sempre come il “poverino”, lo “sfortunato” e il “fortunato”. In adozione non c’è nessuna fortuna o sfortuna, se siamo in adozione è perché qualcosa non ha funzionato prima, per tutti. Il paese d’origine viene spesso descritto o immaginato come povero, ma la povertà non è una scusa per adottare dei bambini. Oggigiorno paesi ritenuti poveri, sono diventati paesi forti, molto di più di alcuni paesi europei.
Ancora, le persone adottate, anche quando cresciute, non vengono riconosciute come adulti – sono ancora visti come figli. Accettare il fatto che cresciamo anche noi, come tutti, e che come tutti gli adulti, dovremmo essere trattati come persone. Riconoscere che possano essere dei professionisti anche nel settore dell’adozione. Alcuni esempi: il bambino adottato dalla pelle scura – definito di colore o color cioccolatino. Pensare che sia fortunato perché non possiede ricordi – pensare che con un bambino piccolo sia più facile. O paragonare l’età del bambino all’età dei suoi coetanei nati e cresciuti qui. Ripetere che siamo dotati di poteri straordinari come la resilienza – quando in realtà per noi si è trattato di sopravvivenza e… portiamo i segni di questa resilienza sopravvalutata. Giudicare usanze e atteggiamenti legati alle nostre tradizioni come se fossimo privi di educazione “perché non abbiamo avuto dei genitori”. Essere visti come stranieri perché abbiamo la pelle diversa, nessuno immagina che potremmo essere adottati.
L’elenco è davvero molto lungo…